Stropiccio continuamente le mani e, subito dopo, vedo le immagini delle braccia di mio nonno. Gonfie, piene di aghi, contuse, bluastre. Ma forti. Mani di un uomo che ha lavorato per tutta la vita. Di un uomo che ha cresciuto quattro ragazzi e una nipote. Di un uomo testardo.
Eppure le sue dita sono cosi gonfie che quasi non riesco a raddrizzarle per guardarle.
Mi fa male il cuore e la mia anima si lacera.
Quando l'ho visto la prima volta in terapia intensiva era immobile. Freddo. Con mille aghi, con quel macchinario della ventilazione artificiale, con gli elettrodi addosso.
Non volevo piangere, ma non ho resistito. Gli ho detto che sono al suo fianco. E che lo amo. E che è stato il miglior nonno del mondo.
Quando sono uscita fuori sono scoppiata a piangere, perché, in fondo, io lo sapevo.
Sapevo che non ce l'avrebbe fatta.
I medici lo davano per spacciato già dalla prima notte, invece lo avevano operato ed era sopravvissuto. E a settantatré anni è un traguardo sopravvivere ad un incidente che gli ha provocato una lesione al cuore, rotto tre o quattro coste che hanno perforato i polmoni, la rottura del bacino, un trauma cranico severo.
Perché quel ragazzetto che doveva guidare con 50km/h stava andando, invece, con almeno 125km/h. E che era troppo attento ad altro per guardare avanti, cosicché ha colpito proprio la sua portiera.
E gli ha tolto la vita.
E ha tolto la vita a tutti noi.
Soltanto diciassette giorni prima lo avevo salutato perché abito in un altro paese. Era piccolo nella vestaglia rossa di mia nonna. L'ho baciato promettendogli che sarei tornata a trovarli per Natale.
Io la mia promessa ero intenta a mantenerla, ma lui non ha mantenuto la sua di aspettarmi.
Nemmeno un mese prima mi ero sposata. Ho provato una grande felicità, e poi? E poi ho dovuto provare il più grande dolore della mia vita. Mai avrei immaginato che esista un simile dolore, tale da annullarti come persona. Ti toglie i pensieri sani. Ti annichila tutte le tue sicurezze. Rende cenere i tuoi sentimenti.
Per quindici giorni sono andata in quel maledetto reparto. Ho pregato Dio. Ho parlato con mio nonno. L'ho accarezzato. Gli ho detto ogni giorno quanto lo amo. Gli avrei voluto dire molte cose. Avrei voluto concentrare in quei pochi minuti che mi erano concessi, tutto ciò che non gli avevo mai detto, tutti i discorsi che non avevo mai fatto, tutti i perdoni che non ho mai chiesto.
Ha compiuto settantaquattro anni lì. Da solo, tutto rotto, in fin di vita, in un reparto di ospedale, divorato dal dolore. In fin dei conti, era in coma. Chissà se avrà sentito qualcosa.
Gli ho fatto gli auguri.
Gli auguri più terribilmente tristi della mia vita.
E dopo cinque giorni è morto.
Il penultimo giorno, gli parlavo, e da sotto le sue palpebre uscivano lacrime continue. Pensavo di essere matta, di immaginarmele e, quindi, l'ho toccato. Erano lacrime vere.
Non saprò mai se mi abbia sentita. Se abbia mai capito che gli sono stata accanto. Se ha saputo quanto bene gli abbia voluto.
La sua morte è stata una doccia fredda. E' come se qualcuno avesse infilato la propria mano nel mio petto e mi avesse strappato il cuore fuori.
Da qualche parte ho letto che il coma sia soltanto un lungo addio.
Un modo che i nostri cari hanno per dirci addio. Per abituarci alla loro assenza.
Mi riesce ancora oggi difficile pensare che non lo rivedrò mai più. Non gli parlerò più. Non lo abbraccerò più.
Mai più.
MAI.
Nemmeno una volta.
Sono passati quasi due mesi ormai, ma non c'è giorno che io non pensi a lui o non pianga. Mi reputavo fortunata a non aver mai avuto un lutto in famiglia, eppure la morte viene cosi.
Improvvisa.
Non chiede il permesso di nessuno. Ti cambia le prospettive sulla vita, ti infonde nuove paure, ti priva della speranza.
I giorni ormai passano uno uguale all'altro. Fuori fa freddo. Fra poco cadrà la prima neve. In me è già pieno inverno.
Non voglio parlare con nessuno, non voglio vedere nessuno, non mi interessano le dramme di nessuno. Sto chiusa in casa tutto il giorno e vado al lavoro. Voglio solo isolarmi ed essere lasciata in pace.
Qualcuno mi ha detto "Era solo tuo nonno, non puoi stare cosi".
Come se l'amore si dovesse misurare. Come se per un nonno l'amore fosse inferiore che per un genitore. Come se fosse un effetto collaterale del vivere. Una persona in più.
Mi ha ferita e arrabbiata.
L'amore per mio nonno era grandissimo. Fra i nipoti, io sono la più grande. I piccoli non hanno ancora capito cosa sia la morte. Una di loro al funerale mi domandava "E non si muoverà più? Ma non respira? Cosaaaaa? Starà cosi per sempre?".
Loro non sanno cosa sia la morte.
E va bene cosi. Una parte di me avrebbe voluto che anche io fossi abbastanza piccola da non comprendere, eppure io, fra tutti, sono la più fortunata.
Si, perché per ventotto anni ho avuto mio nonno accanto. Mi ha vista laureata, ha visto che vivo bene, che mi sono sposata. Queste sono le sole cose che mi tranquillizzano, il fatto di sapere che lui era felice perché mi ha vista "sistemata".
Ormai sono i primi di Dicembre.
Fuori siamo a meno qualche grado.
Capita che durante il giorno io pensi a lui, anche se il tempo della rimembranza è la notte. Lo vedo in cortile che mi bacia e abbraccia. E lo sento.
Come se fosse in carne e ossa.
E sento il suo profumo.
Non l'ho mai sognato da quando è morto. Ho sognato una volta che mi diceva di aver fame e una seconda volta che mi diceva che non so andare in retromarcia con la macchina. Non l'ho, tuttavia, visto. Ho sognato solo la sua presenza.
Mi manca.
Come può mancare qualcuno che è stato consegnato all'infinito.
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